lunedì 18 novembre 2013

8 ½ di Federico Fellini

Secondo me, ma non è solo il mio parere, sono quattro i simboli altissimi dell’arte italiana. La Gioconda di Leonardo Da Vinci, La Divina Commedia di Dante Alighieri, Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno e 8 ½ di Fellini.
Quando una persona è in crisi, che può essere esistenziale, morale, religiosa, 8 ½ è l’antidoto di tutti i mali.
Nel cinquantenario della messa in sala, non si può non parlare del film che ha illuminato tutto il mondo dell’arte, tutti i registi, tutti gli attori. Dopo il capolavoro di Fellini non c’è niente, è tutto un copiare, un rubare, un simulare.
Parlavo prima della crisi. Guido (Snaporaz, lo stesso Federico) è un regista in difficoltà, ha in testa un caos asfissiante, viene da un “evento” come La dolce vita, va alle terme per guarire da un male fisico e da uno psicologico: il non afferrare più il senso del significato della sua vita. Ora, cosa c’è di più alto, di più sublime, che far scaturire dalla mota un fiore meraviglioso? Lo ha fatto Dante, l’hanno fatto Leonardo e Modugno, e Federico, dal pantano della sua vita registica e personale (che sono poi la stessa cosa) ha tirato fuori dal suo cappello nero il miracolo: un film imperdibile, unico, purificatore. Un film nel film, la storia della sua vita, in realtà un escamotage di devastante genialità.
Marcello Mastroianni, qui nella prova attoriale più convincente e commovente della sua carriera, è l’alter ego di Fellini. Nella stazione termale (paragonata ai lager nazisti, come il fumo che esce dall’auto all’inizio del...miracolo) gli gira tutto intorno: la morte, il lavoro, il passato, il patema per il futuro. Uomini anziani e calvi, maestranze, finti amici. Mentre la prima ora dello spettacolo è dedicata alla rappresentazione degli ambienti e delle persone, le donne, l’amante (una Sandra Milo pluripremiata, forse l’unica che recita, le altre sono o sembrano se stesse, da Rossella Falk a Anouk Aimée, qui imbruttita), il lavoro, il produttore che sta alle calcagna di Snaporaz, il critico che Guido tanto odia (una parte, quella di Fabrizio Carini, l’intellettuale, da applausi), la seconda ora è dedicata alla vita professionale e all’intimità, ai dubbi, ai sogni, all’amore, alla speranza. Non è un film onirico e controverso (Dio mio che brutte parole) ma è una pellicola psicologica, terapeutica, nevrotica, psicanalitica e mondatrice.
Lo spazio piccolo, angusto, è rappresentato solo all’inizio del film, quando Guido nell’auto si sente soffocare, appare un fumo, e tutti sono morti o vivi, come l’esistenza ci insegna. Poi è tutto grande, gigantesco; gli scenari di Cinecittà, il mare, tutto è sublimato nella grandezza che merita una storia del genere. Niente è fallace, l’ensemble è come vuole Fellini; la teoria dell’imperfetto assoluto mescolata all’estro manifestato: come Mastroianni che parla due minuti e in quel lasso di tempo non si vede il viso, ma solo il cappello, nero, i calzoni, i vestiti.
Claudia Cardinale, l’icona della bellezza italiana che in quel periodo stava girando Il Gattopardo, si mostra al regista come ancora di salvezza, opera mobile salvifica, flusso vitale. Anche la scena in cui appaiono tutte le donne di Guido è sublime: Marcello fa il bagno (Federico forse odia le terme) e tutte le persone femminili che ha conosciuto gli appaiono insieme. E lui a un certo punto, pur amandole (ma ancora non lo percepisce) e godendo del privilegio di conoscerle, le frusta. Jacqueline, che somiglia a una ballerina del Crazy Horse, è troppo vecchia (menziono il nome ma è una visione sbalorditiva) nonostante dichiari di avere 28 anni, e Fellini la depone “di sopra”, dietro al cancello, isolata dalle altre, come tutte le donne che hanno smosso sentimenti, un tempo, ma adesso non servono più, sono ferrivecchi, catorci, in poche parole il passato. In quella spettacolare scena corale solo la moglie Luisa (Anouk Aimée-Giulietta Masina) è normale, gli parla dello stirare, del cucinare, del lavare. Federico anela alla vita della maggior parte delle persone, ma non ne può, per ora, provare l’ebbrezza, assillato dall’idea clamorosa, cioè il film, che non scaturisce, dai preti, dal produttore che lo pressa, da attori che si propongono e lui tratta da macchiette, da falliti, lui stesso è fallito. Sembra. In realtà cerca l’Asa Nisi Masa, la sua anima.
Rimini che si propone con il circo, il mare, la nonna che gli parla in dialetto, la Saraghina, a cui Guido piccolo si avvicina incuriosito ed è per questo punito perché la donna enorme romagnola dicono che sia il diavolo; punito perché fantastica, punito perché è diverso dal piattume, punito perché ha il solo torto di vivere. Al minuto 21:58 si vede il padre che vagheggia nel cimitero e gli parla, e Guido sembra lo seppellisca in una scena straziante, e la madre, morta anch’essa lo viene a trovare ogni tanto, la madre che Guido scambia per Luisa, la moglie, che confina in uno spazio immaginario.
Il mestiere del vivere lo stritola con una nevrosi impellente, allora cosa c’è di meglio che perdonare chi ha amato: se stesso bambino, i suoi genitori, la moglie, la normalità, la vita, la professione? Nella scena finale il piccole Federico suona il flauto, vestito di bianco, poi scompare per sempre degradando nel nero, ma è sempre presente nel mezzo del cammino della vita di Fellini.
Se da una crisi del riminese più famoso è nato codesto capolavoro, copiato ma inimitabile, fate come me, guardatelo, fantasticate, vivetelo: guarirete.

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