Nella patria del soldato
inglese, quello che con la spada, il fucile, con il revolver è lo stesso,
preparato da esercizi massacranti e prove durissime, pena l’esclusione e il
dileggio, le quattro azzurre del fioretto femminile hanno trionfato nella
finale con la Russia.
500 grammi, questa è la
spinta minima per colpire nel fioretto.
Vengono da Jesi De
Francisca e Vezzali, dalle cupe Marche, per pregustare il trionfo.
Di Vezzali si sa già
tutto, per lei sconfitta è morte, ma riesce ad entusiasmarsi per ogni colpo. La
sua smorfia è come quella di Keith Richards, il suo tocco di medusa, con le
gambe piegate pronte all’assalto, è un canto verso l’assoluto. Si sforza
Valentina, ha grinta, le sue rughe sporgono come le comari Jesine, che anelano
al mare ma, nei freddi inverni, sono sferzate dalla bora e dalla neve. Il
figlio moro lo aspetta al trionfo, il marito non si sa, probabile che l’abbia
cacciato da casa, con un impeto inusitato, tipico delle ragazze venute su a
pane e fatica.
Di De Francisca, anche
oro individuale, colpisce la statuarità del corpo e i suoi lunghi capelli
ramati. Non bella ma decisa amazzone che vaga verso i palazzetti freddi in
cerca di gloria. E quando la trova rimane composta, come se niente fosse e
l’appartenga per casta.
Le avversarie russe,
splendide muse sconfitte con occhi distanti, hanno un appeal che conosciamo. Il
muro e una centrale atomica, la neve e la pianura sterminata, i capelli che le
riportano a casa quando hanno alzato un po’ il gomito, bevendo con risa
sguaiate a fianco di rudi uomini persi e alticci.
Ilaria Salvatori, mora e
piccolina, sostituisce nel secondo round la Errigo.
Fa da mamma nel podio con
una giovane coreana. I suoi occhi hanno visto tutto il livore della infinita
riserva, ma alla fine il trionfo l’appaga.
Lei, forse alla sua
ultima Olimpiade, ha portato acqua verso la zona 45, il punteggio che consacra
la vittoria della squadra più forte del periodo. Da sempre.
Arianna Errigo. L’ho
lasciata per ultima. Mancina, capelli alla schiaffo, faccia da schiaffi, irride
l’avversaria con il coraggio e l’arroganza del giovane marine inglese. Le urla
in faccia la sua grinta. Ha una tecnica tutta sua, con una ferocia nel corpo a
corpo che entusiasma. Cerca i favori del pubblico, inneggia allo spettacolo, la
sua bellezza è pari al suo coraggio.
È lei l’eroina del
momento, si fa beffe di tutti, persino della Pellegrini, per parlare
dell’Ultima Diva perdente.
Errigo è il nuovo che
avanza. La sua scherma è blasfema per il sistema, si batte con una facilità che
irrita, ma piace, piace tanto.
Volevo lei che
combattesse fino alle magiche 45 stoccate, il numero magico per l’oro, lei che
infrangesse ancora il muro dei 500 grammi, misure che ti separano dai comuni
mortali. Lei che baciasse d’oro la Dea Nike rappresentata in medaglia, e che
girasse per il palazzetto ebbra di gioia e con i bellissimi occhi limpidi che
si accendono di notte come le falene del Tamigi. Come invece ha fatto davvero
la Vezzali. Divina ed esperta, gode ormai dei suoi trionfi.
Ripara, en garde, evita il
touchè, para, colpisci, avventa, chiudi, finisci!
L’arbitro accompagna, in
un francese sporco ma obbligatorio, la leggenda del fioretto femminile.
Si dice che la scherma
balli una sola estate, ogni quattro anni, sotto l’ombra di olimpia, ma invoco
che le quattro azzurre mi indichino la vittoria, con i capelli a schiaffo e le
sberle in faccia ai nemici.
Colpisci duro, oltre i
500 grammi, ed entri nella Storia, come il soldato inglese, che aspetta, magari
nel vento freddo di Jesi, ancora una volta che appaia il nemico. Per
sconfiggerlo.
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