martedì 25 settembre 2012

Sinistra del porto


Gli scogli colorati di vita della Sinistra del porto.
In un pomeriggio assolato incontrai Oreste e mi assalirono i ricordi.
Nonostante il nostro Adriatico sia piatto come una sogliola, io sono un uomo di scoglio. Ho passato tanto tempo, quello importante, sdraiato come una lucertola malata, sugli scogli della Sinistra del porto ove adesso c’è la darsena, che mi sembra impossibile che io abbia vissuto là gran parte della mia vita. Prima andavo in bici, poi in motorino, e incontravo Oreste, l’uomo senza tempo, che mi aspettava con i baffi ridanciani e i pochi ma figurosi capelli, coperti spesso da un copricapo azzurro, colorato esattamente come il suo motorino Ciao. Lui era in pensione ormai, io ero fuori dal tempo e dallo spazio, calettato là dalla disperazione e dal piacere, quello sì, intenso. Chi non ha vissuto la Sinistra del porto ha perso molto: il sole che batte forte all’una del pomeriggio, le ragazze con costumi strani e sexy, le arzdore con la voce roboante che squarcia il petto importante. La Destra del porto era per noi un ricordo vago o un futuro approdo. Quando l’acqua verde come gli occhi di una donna innamorata espresse quelle mucillagini a sterco di mucca, annunciai a Oreste che sarei andato di là, nel mondo dei diversi seppur uguali, dei sani piuttosto che malati. Degli sconosciuti. Mi uccise dentro questa decisione. Il primo pomeriggio nel piccolo moletto con il faro verde era indimenticabile. C’erano ragazzi e ragazze, forse un po’ strane, solitarie, amanti del sole cocente, degli scogli a picco sul paradiso e del mare incontaminato e alto. Troppi anni trascorsi là, senza tempo, con la Vicini azzurra e poi con il Garelli verde, ma non sono pentito, ho vissuto delle cose che solo i matti, i predestinati o gli artisti stravaganti che ora sono a Berlino a fare teatro possono vivere.
Oreste l’ho visto due giorni fa, nel pomeriggio soleggiato e freddo di Marina Centro. Non pensavo fosse ancor vivo, lo dico seriamente, e questo fatto, questa vista mi turbò piacevolmente. Gli avrei voluto urlare i miei ricordi o il mio affetto, ma la voce non mi uscì e stetti a guardare la mia Seat azzurra parcheggiata malamente nelle strisce blu. “Oreste io vado, non ce la faccio più a stare qui, troppi ricordi e così il tempo si getta via”, come quel vecchio arzillo, nostro amico, che si tuffò tra gli scogli e si ruppe il tendine d’Achille, per il nostro divertimento.
L’anziano, che voleva sapere di più di questo giovane bello ma solo, mi disse: “Ettore, ma come farò adesso senza di te? Chi mi guiderà al “centro del largo” o nei pressi della casetta verde? O semplicemente (ma mi spezzò il cuore), chi mi salverà dall’infarto vicino?”
Non salutai Oreste, ma lo vidi ritto che guardava verso la Barafonda e piangeva, piccate lacrime solcarono le sue provate gote. Lasciai dopo tanti anni la Sinistra del porto, l’amata Barafonda, ove andavo anche da bambino con mia madre e gli amichetti, e restai con il telo da spiaggia per un anno al bagno 50 senza parlare con nessuno e senza sogni.
Siamo soli, Oreste, ma forse un giorno non lo saremo più, pensai, e il ricordo tornò agli scogli bianchissimi, malinconici e bellissimi della mia Sinistra del porto. 

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