sabato 26 febbraio 2011

La donna che canta


Al Settebello di Rimini è difficile che sbaglino i film. Un martedì sera sono andato a vedere La donna che canta. Molti spettatori, perlopiù donne all’ora della proiezione dei cinefili, le 20 e 30. Il film apre con un parto, avvenuto in casa, in un tugurio sudato, e la nonna per il figlio della vergogna, madre cristiana e padre arabo, opera con un ago acuminato tre buchi nel tallone del bambino per riconoscerlo un domani. Lo sfondo è la infinita lotta tra palestinesi e cristiani, negli anni settanta, in una Gerusalemme, e dintorni, che non smette mai di essere devastata da una guerra vergognosa e duratura. La madre, nel capolavoro del regista Villeneuve, entra nel territorio cristiano ma nel pullman i guerriglieri uccidono tutti, tranne la protagonista. Il rogo dell’automezzo è una scena mozzafiato, brucia tutto, anche la speranza. Donne e bambini. Nel frattempo i figli della donna, alla nostra epoca ormai morta, ricevono il suo testamento, un po’ strano: consegnare una lettera al figlio e una al padre. Per avere una meritata sepoltura: una bella bara in faccia al sole. I ragazzi, perplessi, iniziano un percorso periglioso in Medio Oriente, dove sembra che la mamma sia malvista da tutta la popolazione. Anche se sono anni che non vive più lì. In realtà all’epoca ha ucciso il massimo esponente della destra cristiana ed è ricercata. E poi chi sarà il figlio della guerra, e il padre, mai visto, chi è? La mamma ha vissuto in Canada con i figli dell’amore e vuole a tutti i costi che i suoi ragazzi ritrovino il padre e l’altro figlio. In realtà la donna che canta ha pagato per l’omicidio del politico, ed è stata 15 anni, 15, in una cella angusta, terribile e umida. Mia moglie non ne poteva più di quelle scene orribili, io, che intuivo il finale, volevo andare fino in fondo. Quindici anni senza parlare, solo cantare con una flebile voce ma mai piegata, ecco cosa ha fatto la madre in tutto questo tempo. Poi è arrivato l’aguzzino, il torturatore che, violentandola, l’ha messa incinta. Ha partorito in cella, tra mille spasmi, e poi l’hanno liberata, con il marchio indelebile della violenza. Il finale del film non ve lo spiego, è un colpo di scena terribile e nello stesso tempo catartico. Sono uscito contento e barcollante dalla proiezione e siamo andati a mangiare qualcosa in un pub del mare. Con somma sorpresa ho notato che era piena di auto la zona di Marina Centro, abbiamo optato per un altro locale zeppo. Troppo rumore per me, abituato al silenzio assordante del film. Due donne, una dell’età di mia zia e l’altra di mia nipote, guardavano verso noi, appoggiate alla balaustra lignea. Io, da timido e imbranato, mi sono rovinato la forse bella serata, con quegli sguardi appiccicosi. Il toast alla pancetta era vomitevole, le patatine gustose e la birra purchessia. E le due donne, una corteggiata da tutti e l’altra in disparte (mia zia) continuavano a guardarmi. E la musica dal vivo imperversava con delle donne che cantavano rock. La clientela del martedì è composta da 50enni e ventenni, folla variegata, vuol dire che il locale tira. Siamo rientrati a casa tardi, con negli occhi sia lo sguardo di mia zia, ormai morta, e della coraggiosa donna cristiano-araba, perita anch’essa nella pace fittizia. Una coca fresca a mezzanotte è utile per dimenticare tutto oppure, anzi meglio, per ricordare.

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